Che fine ha fatto l’Amazon Tax: la rinuncia del governo, ma potrebbe tornare in questa forma

Il governo sta vagliando la possibilità di tassare le vendite online per favorire le imprese locali, ma i dubbi sulla misura sono molteplici.

Per lungo tempo si è vociferato che il governo avesse intenzione di inserire all’interno della prossima manovra di bilancio la “Amazon Tax”, ovvero una tassa per tutti quei siti di e-commerce che si sono diffusi negli ultimi anni e che hanno contribuito ad inasprire la crisi dei negozi fisici. La motivazione alla base di questa misura non sarebbe solo la voglia di favorire la ripresa delle attività locali, ma anche e soprattutto quella di limitare gli acquisti che necessitano di un trasporto dannoso per l’ambiente. Tanto che la misura viene anche chiamata “Tassa Verde”. Stando a quanto rivelato da uno studio della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa, l’unica circostanza in cui una consegna privata ha meno impatto ambientale di un acquisto in uno store fisico da parte del cittadino, è infatti quando l’abitazione di quest’ultimo e lo store distano dai 15 chilometri in su.

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Una distanza che comunque non è così insolita per chi non abita in una grande città ed è costretto a lunghi spostamenti per raggiungerlo o per recarsi in un centro commerciale, strutture che solitamente sono poste all’esterno dei centri abitati, in zone industriali o comunque zone di periferia. Al di là del vantaggio ambientale che comporterebbe il riportare i compratori negli store fisici, ciò che dovrebbe favorire la tassa è la rinascita dei negozi di vendita al dettaglio. La tassa, infatti, imporrebbe un aumento dei costi dei prodotti venduti negli e-shop e dunque la possibilità che i clienti prediligano l’acquisto fisico a quello online. Non tutti però sono convinti che l’economia italiana ne gioverebbe.

Amazon Tax, un bene per l’economia italiana?

Sin dal primo momento in cui è emersa l’intenzione del governo di inserire la tassa sull’e-commerce nella prossima manovra di bilancio, in molti si sono lamentati. A farsi portavoce delle lamentele delle aziende italiane di e-commerce è stato il presidente di Netcomm, Roberto Liscia. Questo ha commentato in un primo momento che, a suo avviso, l’attuale governo non ha idea di quale sia l’impatto economico dell’industria del web nell’economia italiana, né tantomeno quale sia l’impatto ambientale del settore.

Per fare capire meglio la propria posizione sulla tassa, Liscia ha  spiegato che tassare in questo momento le aziende italiane che vendono sul web significa affossare le loro possibilità di crescita, dato che nell’ultimo periodo i ricavi sono già calati a causa dell’inflazione e dell’aumento dei costi tecnologici. Una simile mossa, a suo avviso, minerebbe la competitività dell’Italia in ambito internazionale, impedendo la crescita dell’esportazione. Tante, infatti, sono le industrie che nell’ultimo periodo hanno trovato nuovi guadagni proprio tramite all’export consentito dalla visibilità che dà e-commerce.

Il presidente di Netcomm ha poi citato un report di The European House – Ambrosetti, secondo il quale la vendita digitale genera introiti per 58 miliardi di euro ogni anno ed il settore occuperebbe il terzo posto tra le 99 attività economiche italiane per incidenza sul fatturato. Numeri enormi che si sommano a quelli relativi alle imprese e ai lavoratori che verrebbero danneggiati dalla tassa: ” Stiamo parlando di una rete che, solo nel 2019, contava 678mila imprese e oltre 290mila lavoratori. Oltretutto, in un mondo sempre più multicanale, i negozi tradizionali stessi si avvalgono di servizi di consegna a domicilio e gli effetti di un’ulteriore tassazione avrebbero conseguenze negative anche sui costi della loro attività, oltre che sui prezzi destinati ai consumatori stessi”.

La marcia indietro del governo è definitiva?

Come sappiamo nel testo finale della Legge di Bilancio presentata dal governo lo scorso 21 novembre non è stata inserita la tanto discussa “Tassa Verde“. Nelle intenzioni del governo questa doveva servire a reperire fondi utili a tagliare il cuneo fiscale e anche a contrastare l’inflazione e il caro bollette di questo periodo. Le aziende coinvolte dalla tassazione del commercio online (la percentuale ipotizzata era tra il 10% ed il 20%) sarebbero dovute essere solo quelle con introiti molto importanti, ma probabilmente la stesura della proposta di legge non avrebbe messo al sicuro dal rischio fallimento le piccole e medie imprese che proprio nel commercio online avevano trovato uno sbocco per sfuggire alla crisi.

Plausibile, dunque, che dopo aver analizzato le critiche nate dall’ipotesi di inserire questa tassa, il governo si sia accorto che non c’era il tempo per inserire in questo momento una legge completa che considerasse tutte le variabili di un mercato in crescita e già gigantesco e dunque che non risultasse nociva per le aziende italiane di export piccole e medie. Sulla base di questa ipotesi, visto che in realtà dal governo non sono giunte precisazioni o commenti in merito, è probabile che l’inserimento di questa tassa possa essere solo rinviata alla prossima manovra. Tuttavia, prima di approvare una simile legge, bisogna anche considerare gli investimenti dei colossi dell’e-commerce (Amazon in primis) nel settore del lavoro in Italia. E’ possibile che questa tassazione spinga i colossi a lasciare il nostro territorio?

Il rischio potrebbe essere concreto e nel caso di Amazon sarebbe comunque un danno di non poco conto per gli italiani. L’azienda di Jeff Bezos ha assunto in questi anni oltre 14mila dipendenti a tempo indeterminato. Assunzioni che continueranno anche negli anni a venire per ampliare il progetto di espansione previsto dall’azienda multinazionale su tutto il territorio. La chiusura degli stabilimenti e dei magazzini atti allo smistamento delle consegne sarebbe un danno non solo per il colosso dell’e-commerce, ma anche per quelle migliaia di persone che non avrebbero più un posto di lavoro.

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